domenica 29 agosto 2010

Daniele Capezzone: il citofono di Berlusconi.

Dopo l'articolo che abbiamo postato ieri, è il turno oggi di un articolo di Francesco Merlo, pubblicato sul Venerdì di Repubblica. Argomento: Daniele Capezzone. Articolo "carino", che suscita un po' di perplessità, almeno per me è stato così, in alcuni passaggi; ve lo propongo.

Dai radicali al Pdl. Dalle battaglie libertarie a quelle liberiste. Storia di un transfuga che bene incarna una figura chiave della Seconda Repubblica: il portavoce programmato per ripetere incessantemente gli slogan del Premier. Come negli spot.

di Francesco Merlo

"Lei e io siamo i soli che abbiamo fatto paura a Marco" gli ha detto Berlusconi il giorno che Daniele Capezzone gli si è offerto, introdotto e sponsorizzato da Sandro Bondi. Figura minore dell'Italia dei traditori, Capezzone è apparentemente il solo caso di tradimento per affrancamento, di tradimento come iniziazione. " 'A stronzo" gli gridava Pannella in diretta a Radio radicale. E Capezzone: "Vuoi mangiare anche me, ma io non mi faccio mangiare, io mangio". Pochi sanno che anche Sandro Bondi oggi lo liquida come "servizievole e malfido". Capezzone infatti lo ha tradito per Verdini, l'altro coordinatore di Forza Italia con il quale Bondi neppure parla più. Traditore di natura, dunque? Persino in Italia che è il paese del trasformismo non ci si vende mai per denaro: Fini, D'Alema, Prodi...e prima di loro i fascisti che diventarono comunisti sono vite che procedono a strappi. Capezzone invece è una tecnica. Ha l'ambizione di essere un mezzo, un megafono, un walkie-talkie. E dunque si offre come uno strumento, come un citofono, come un telefono. Decifra il codice, ha la violenza dell'apostolo, ma non ne ha la passione, incarna una linea, la riproduce con intelligenza e con furia ma senza fantasia. E gli italian,i che lo sentono furioso berlusconiano, anche quelli che condividono tutte le cose che dice e persino l'impeto con cui lo dice, percepiscono la sua stranezza di "servizievole e malfido" e non hanno simpatia per la fissità dello sguardo, per la sua sostanza robotica.

Nessuno più, come ai tempi radicali e come accadde pure a me, si convince che è un giovane leader, una bella speranza. Spiace dirlo, ma Capezzone è percepito come lo sgabello politico che può stare in ogni casa, arredare questa o quella camera, stare ai piedi di qualsiasi poltrona.

Eppure fu lunga e tormentata la sceneggiatura freudiana in romanesco con Pannella, il quale certificava che quel ragazzo non ce l'aveva fatta a somigliargli e proprio nel momento in cui Capezzone pensava di somigliargli di più. Di sicuro tutti tutti credettero che gli insulti solfeggiati alla radio umiliavano Pannella: "Che rivale ti tocca combattere? Che vergogna se fallisci! E che magra gloria se riesci!"

Alla fine Capezzone ottenne come buona uscita il titolo di "giuda", ricevette in dono l'elevazione a "briccone divino". E si mise a scrivere testi per Chiambretti: era il radicale senza casa, la coscienza infelice in cerca di un'uscita di sicurezza.

Dunque si capisce l'allegria disimpegnata di Berlusconi nell'incassare quello strano ragazzo che era stato marchiato a fuoco da Pannella, monumento che atterrisce e che impedisce. Ma Berlusconi non promise nulla di preciso. Temeva di non potere garantirgli la rielezione e non credeva ai suoi orecchi quando Bondi gli disse che Capezzone ambiva al posto che era stato di Elisabetta Gardini. "Davvero vuole fare il portavoce?".

Per Berlusconi era un ruolo decorativo, non sapeva che Capezzone appartiene alla specie secca, sonora, tagliente, senza difetti e senza affetti del portavoce per natura: ieri di Pannella, poi di Bondi, oggi già in viaggio da Verdini-Berlusconi a Bonaiuti-Berlusconi (portavoce del portavoce), domani chissà.

A 38 anni Capezzone vive con mamma Anna, non fuma, non beve, non gli si conoscono mogli, fidanzate e neppure amici, è un bamboccione antropologico, un Lego, figlio unico di papà commerciante sfortunato e mamma direttrice in pensione di boutiques di lusso, casa a Monteverde vecchio, scuole dai Fratelli Cristiani, università interrotta, un vero mammone che non ha nulla del radicale bohémien.

Tradisce, è vero, ma non si tradisce, e gli archivi dei giornali traboccano di frasi incoerenti: prima e dopo, contro e a favore di tutto, laico e confessionale, sul caso Englaro e in spregio alla Bonino, morte a Berlusconi e viva Berlusconi, ma il tradere, lo spostarsi, il consegnarsi a nuove fedi non c'è, e non c'è neppure l'irriverenza beffarda dell'Arlecchino servitore di due padroni, lui ne serve uno alla volta e senza alcuna libertà intellettuale. Capezzone arreda, non ha anima, è una finzione, ma "una finzione vera", come le statue al museo delle cere, "un uomo senza qualità" diremmo, se non ci fosse di mezzo Musil ad impedircelo.

E infatti a Pannella non piacque più quando capì che si azzerava, era un interruttore, un broker di propaganda.

La sua personalità consisteva nel non avere personalità. Aveva deciso di fare a tempo pieno il piazzista radicale il giorno in cui, durante una tipica, sparuta manifestazione davanti a palazzo Chigi, era sbucato fuori, largo di giacca e stretto di cravatta, con la mano tesa verso Pannella che lo prese per un funzionario di polizia e gli disse " 'A dottò, non 'ci' e non 'si' preoccupi, qui stiamo facendo soltanto la rivoluzione".

Da quel momento Capezzone non lo lasciò più. E già allora, che non era un ex, aveva la rabbia dell'ex, dello spretato, ma nessuno sapeva di quale chiesa, e non faceva simpatia perchè i radicali mordono e godono la vita e vedevano in lui il capofila dei risentiti, dei reduci senza identità anche se, con gli occhi bassi e i pugni in tasca, ogni tanto lasciava intendere di aver sofferto, di essere stato stremato dall'accidia e insidiato dallo spleen : "Quando ero molto solo, la mia unica compagnia era la Radio radicale".

Ascoltando la radio aveva immagazzinato tutto di Pannella e del suo mondo di matti. E appena arrivato disse d'essere "responsabile dell'informazione", un incarico che nessuno gli aveva dato e che , ovviamente, nessuno gli tolse.

Geniale pataccaro di se stesso divenne una Pannella più Pannella di Pannella. Ma la troppa fedeltà è sempre tradimento. Pannella, che è passione, gli insufflava l'anima ma non otteneva vita e, perciò, cominciò a sfidarlo, a chiedergli di staccarsi dalla voce che lo sostanziava, a perdere la voce e dunque a perdersi come portavoce. Alla fine Pannella capì che , come lo spaventapasseri porta gli abiti d'uomo per far credere ai passeri di essere un uomo, così Capezzone portava la voce dei radicali per far credere di essere radicale. E dunque si capisce perchè Pannella, che lo aveva fatto eleggere deputato, presidente di commissione e segretario radicale, perse la testa. E Capezzone perse il posto.

Oggi Capezzone è, per conto di Verdini, il ghost-writer della riservata informativa sul Palazzo che ogni settimana arriva sul tavolo di Berlusconi. E' il più feroce avversario di Fini. E' ospite di tutti i programmi minori della radio e della televisione. Ma a differenza del Traditore, nobile categoria radicale (come spiega, tra gli altri, bene e doviziosamente Antonio Di Grado nel suo Giuda, l'oscuro, 2007) non può cantare con Pannella e Guccini: "Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista, io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso e io uguale, negro, ebreo, comunista".

Capezzone non ha il suo io, è porta-voce, porta-pensiero, porta-io. Di un altro. E' la sua natura: come don Abbondio che non aveva coraggio, Capezzone non ha un io. "Io è un altro" direbbe Bondi che sa di poesia. Capezzone è il fratello maschio di Echo, la ninfa condannata a ripetere le parole di altri perchè le sue erano state di delazione.


A questo articolo è seguita una replica, in difesa di Capezzone, da parte di Mario Adinolfi; replica che suscita molte più perplessità dell'articolo di Merlo e che, per correttezza e curiosità, propongo all'attenzione degli avventori della Room:

Ma io Capezzone lo difendo

Questo articolo è particolarmente difficile da scrivere: perché sono stato amico di Daniele Capezzone, perché ho litigato con lui alla fine del 2007, mentre stava maturando quella conversione berlusconiana che ovviamente non ho condiviso. Ma Capezzone rappresenta soprattutto il campione degli outsider della politica: un grande talento, un “secchione” che studiava e sapeva, non chiacchierava e basta, un osservatore capace di visione e unico politico italiano nato negli anni Settanta dotato di reale personalità.
Scrivo questo articolo oggi, perché Francesco Merlo sul Venerdì di Repubblica lincia Capezzone: «Figura minore dell’Italia dei traditori» (e traditore è parola scritta venti volte nell’articolo), «stronzo, servizievole e malfido, giuda, bamboccione antopologico, pataccaro di se stesso, piazzista, uomo senza qualità, non ha un Io, non ha un’anima, senza alcuna libertà intellettuale». Un finale davvero esagerato, uno sfregio inutile e sbagliato, all’acido muriatico: «Capezzone è il gemello maschio di Echo, la ninfa condannata a ripetere le parole di altri perché le sue erano state di delazione».
Un articolo con questi toni e queste parole non credo di averlo mai letto: il giornalismo italiano va pure giù con la scimitarra, ma con la parvenza di qualche fatto di attualità urgente, oppure per strumentalizzazione politica. Qui c’è l’attacco ad alzo zero, a freddo, su una persona. Non c’è occasione, non c’è notizia, non c’è fatto, non c’è neanche motivazione politica (ché Daniele conta davvero pochino nel Pdl).
Eppure l’articolo più lungo (cinque pagine) del settimanale di approfondimento di uno dei più importanti quotidiani italiani viene utilizzato per demolire Daniele Capezzone sul piano personale.
Se lo merita? Se il problema fosse il cambio di campo (indubbio) o l’asservimento al berlusconismo (indubbio anch’esso) il Venerdì di Repubblica dovrebbe brulicare ogni settimana di articoli così: il Gianfranco Fini che prima dice che il Pdl sono le «comiche finali», poi fa l’accordo e va sui palchi ad alzare il braccio a Berlusconi (dopo aver tenuto per decenni teso il suo), infine torna a fare il legalitario antiberlusconiano con qualche impiccetto in salsa caraibica, come dovrebbe essere trattato? Per Repubblica invece Fini è pronto per la canonizzazione.
Insomma, i traditori sono centinaia, i servi di Berlusconi milioni: perché cinque pagine contro Daniele Capezzone in maniera così violenta? Una risposta c’è. Merlo ha voluto vellicare i suoi lettori: sa che per Capezzone c’è un’antipatia “di pancia” molto diffusa e il giornalista siciliano non ha mai voluto scrivere contropelo. Preferisce gli applausi alle discussioni. E con questo articolo gli applausi (facili) sono garantiti. C’è però anche un’altra risposta, a mio avviso psicologicamente più profonda: Capezzone è bravo. È davvero uno preparato e capace. E il centrosinistra non ama i preparati e capaci.
Capezzone era presidente della commissione Attività produttive e si dimise dopo la rottura con Pannella.
Le dimissioni sono sempre un gesto poco italico.
Il Pd avrebbe potuto difendere quel politico giovane e atipico, considerato che in quella legislatura i gruppi parlamentari dell’Ulivo-Pd non avevano eletto neanche un deputato nato negli anni Settanta.
Ma non era un caso. I deputati giovani vanno bene, ma solo se sono asserviti, in maniera analoga (anche se meno evidente) rispetto a quella tanto stigmatizzata da Merlo.
Insomma, Capezzone l’abbiamo voluto perdere e abbiamo perso un ottimo elemento. Lui, che ama la politica più di quanto ami se stesso, ha visto un futuro solo con Berlusconi e si è gettato nelle sue braccia. Tragico errore. Capitò anche a me di subire simile corteggiamento, ma preferii non cedere. Perché amo me stesso più della politica. Ma non per questo me la sento di aggiungermi ad una lapidazione.
Io so che Daniele è migliore di come viene descritto.
E se la sua deriva è una nostra sconfitta, insultarlo non sarà mai una nostra vittoria.

Mario Adinolfi.

A voi i commenti...

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sabato 28 agosto 2010

Nasce la Gheddasconi Spa.

Dopo quasi un mese di fermo biologico, riprende l'attività della Room67; e ripartiamo da un articolo pubblicato oggi su Repubblica, che tratta l'intensificarsi dei rapporti tra Italia e Libia. O meglio, tra Gheddafi e Berlusconi. O meglio ancora, tra gli affari di Gheddafi e quelli di Berlusconi. Due leader atipici, con molte cose in comune: amanti dei lifting e dei capelli di plastica, oltre che delle donne. Il primo preferisce le amazzoni, il secondo le lolite... Ora però spazio alle cose serie: vi lascio all'articolo, MOLTO interessante.

di Ettore Livini

Un business da 40 miliardi per la Berlusconi-Gheddafi Spa


NON SOLO tende beduine, caroselli di cavalli berberi e sfilate di soldatesse-amazzoni. La Berlusconi-Gheddafi Spa, a due anni dalla fondazione, è uscita da tempo dal folklore. L'oggetto sociale d'esordio - la chiusura delle ferite del colonialismo - è stato rapidamente archiviato all'atto della firma del Trattato d'amicizia bilaterale nel 2008.
L'Italia ha garantito 5 miliardi in 20 anni alla Libia e Tripoli ha bloccato (a modo suo) il flusso di immigrati verso la Sicilia. Poi - snobbando i dubbi degli 007 Usa e dei "parrucconi" come Freedom House che considerano il Paese africano una delle dieci peggiori dittature al mondo - sono cominciati i veri affari. Un pirotecnico giro d'operazioni gestite in prima persona dai due leader e da un piccolo esercito di fedelissimi ("gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca", dice il Colonnello) che ha già mosso in 24 mesi quasi 40 miliardi di euro e che rischia di cambiare - non è difficile immaginare in che direzione - gli equilibri della finanza e dell'industria di casa nostra.

La premiata ditta Gheddasconi ha una caratteristica tutta sua. Gli affari diretti tra i due sono pochissimi. Anzi, solo uno: Fininvest e Lafitrade, uno dei bracci finanziari di Gheddafi, hanno entrambe una quota in Quinta Communications, la società di produzione cinematografica di Tarak Ben Ammar, l'imprenditore franco-tunisino tra i principali fautori dell'asse Arcore-Tripoli. Il grosso del business si fa per altre strade. Il Colonnello ha messo sul piatto un po' del suo tesoretto personale (i 65 miliardi di liquidità di petrodollari accumulati negli ultimi anni). Il Cavaliere gli ha spalancato le porte dell'Italia Spa, sdoganando la Libia sui mercati internazionali ma pilotandone gli investimenti ad uso e consumo dei propri interessi, politici e imprenditoriali, nel Belpaese.
In due anni Gheddafi è diventato il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) con una quota vicina al 7% (valore quasi 2,5 miliardi) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari. Le finanziarie di Tripoli hanno studiato il dossier Telecom, puntano a Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali. Palazzo Grazioli, nell'ambito del do ut des di questa realpolitik mediterranea, ha dato l'ok all'ingresso di Tripoli con l'1% nell'Eni ("puntiamo al 5-10%", ha precisato l'ambasciatore Hafed Gaddur). E la Libia ha allungato di 25 anni le concessioni del cane a sei zampe in cambio di 28 miliardi di investimenti.

Il Cavaliere tira le fila, consiglia e gongola. L'ingresso del Colonnello in Unicredit - oltre che a innescare i mal di pancia leghisti - è il cavallo di Troia per conquistare i vecchi "salotti buoni" tricolori, la stanza dei bottoni che controlla Telecom, Rcs - vale a dire il Corriere della Sera - e le Generali. Il momento per l'affondo è propizio. Il Biscione ha già piazzato le sue pedine negli snodi chiave: Fininvest e Mediolanum hanno il 5,5% di Mediobanca, crocevia di tutta la galassia. Tra i soci di Piazzetta Cuccia - con un pool di azionisti francesi accreditati del 10-15% - c'è il fido Ben Ammar. E gli ultimi due tasselli sono andati a posto in questi mesi. Lo sbarco di Tripoli a Piazza Cordusio, primo azionista di Mediobanca, stringe la tenaglia dall'alto. E a chiuderla dal basso ci pensa Cesare Geronzi, presidente delle Generali i cui ottimi rapporti con il Colonnello (e con il premier) - se mai ce ne fosse stato bisogno - sono stati confermati dalla difesa d'ufficio di entrambi al Meeting di Rimini. Niente di nuovo sotto il sole: l'assicuratore di Marino ha sdoganato Tripoli anni fa accogliendola nel patto di Banca di Roma (poi Capitalia) assieme a Fininvest. E ancor prima ha imbarcato la Libia in banca Ubae, guidata allora da Mario Barone, uomo vicino a quel Giulio Andreotti che solo un mese con il suo mensile 30 giorni ha pubblicato un volume sui discorsi pronunciati da Gheddafi nella sua ultima visita italiana.
Il puzzle adesso è quasi completo. Il Cavaliere ha in mano il controllo di industria e finanza pubbliche. E ora, grazie all'asse con Ben Ammar e Geronzi e ai soldi di Gheddafi (sommati alla debolezza delle vecchie dinastie imprenditoriali tricolori), può blindare quella privata estendendo la sua influenza su tlc, editoria e - Bossi permettendo - sulle ricchissime casseforti delle banche e delle Generali.

L'asse con il Colonnello gli regala però un'altra opportunità d'oro: quella di distribuire le carte delle commesse a Tripoli garantite dall'attivismo dell'efficientissimo tandem, immortalato ora a imperitura memoria sul frontespizio dei passaporti libici. Ansaldo Sts (per il segnalamento ferroviario) e Finmeccanica (elicotteri) hanno incassato due maxi-ordini. I big delle costruzioni si sono messi in fila per gli appalti sulla nuova autostrada libica da 1.700 chilometri (valore 2,3 miliardi) affidata in base agli accordi bilaterali ad aziende tricolori. In questi mesi hanno attraversato il Mediterraneo pure l'Istituto europeo di oncologia e Italcementi mentre Impregilo ha consolidato con una commessa da 260 milioni la sua già solida posizione nel Paese nordafricano dove con 150 miliardi di investimenti infrastrutturali nei prossimi sei anni la torta - previo via libera della Gheddasconi Spa - è abbastanza grande per tutti.
Anche Gheddafi, come ovvio, ha il suo dividendo. L'Italia è il cavallo di Troia per portare la Libia fuori dall'isolamento nell'era in cui la liquidità, come dimostra il salvataggio delle banche Usa da parte dei fondi sovrani arabi, non ha più bandiere. Missione compiuta se è vero che persino a Londra - grazie a un'operazione di diplomazia sotterranea guardata con sospetto a Washington - l'abbinata politica-affari ha dato risultati insperati: la Gran Bretagna ha liberato un anno fa Abdelbaset Al Megrahi, l'ex 007 libico condannato per l'attentato di Lockerbie e il Colonnello ha dato subito l'ok alle trivellazioni Bp nel golfo della Sirte. Nessuno poi ha battuto ciglio nella City quando Tripoli ha rilevato il 3% della Pearson (editore del Financial Times) e fondato lungo il Tamigi un hedge fund. O quando il numero uno della London School of Economics è entrato tra gli advisor della Libian Investment Authority a fianco del banchiere Nat Rothschild e a Marco Tronchetti Provera.

Pecunia non olet. E anche l'(ex) dittatore Gheddafi non è più un appestato per le cancellerie internazionali. Il premier greco Georgios Papandreou è sbarcato qui per cercare aiuti. La Russia di Putin - altro alleato di ferro dell'asse Gheddafi-Berlusconi - si è aggiudicata fior di commesse a Tripoli come le aziende turche di Erdogan, altra new entry in questo magmatico melting pot geopolitico tenuto insieme, più che dagli ideali e dalla storia, dal collante solidissimo del denaro.



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domenica 1 agosto 2010

L'incredibile aeroporto di Sint Maarten, nelle Antille Olandesi.

Un fotomontaggio? Forse, a vederlo così di primo acchitto, invece no, non si tratta di un fotomontaggio! Si tratta dell'incredibile aeroporto di Sint Maarten, nelle Antille Olandesi. Un'attrazione turistica nell'attrazione turistica! Ancora nutrite dei dubbi sull'autenticità della foto, vero? Guardate il filmato, allora:



A dir poco impressionante! Pensavo che il tutto fosse estremamente pericoloso, invece credo risulti più pericoloso il decollo dell'atterraggio...



Cosa è in grado di concepire l'uomo! Un aeroporto la cui pista di decollo e atterraggio è, sostanzialmente, la spiaggia! Vi lascio ai filmati su youtube, ce ne sono una... marea!

Che dici James, ti piace...?


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