Articolo uscito sul Sole24ore di domenica 22 agosto
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Caro lettore, prova a immaginare un miracolo nella vita di un romanziere americano. Dico americano, ma la nazionalità è irrilevante. Il miracolo avviene così: lo scrittore prende un aereo con un sentimento comune alla maggior parte degli autori di fiction, quello di non essere apprezzato nè capito, di sentirsi negletto, e magari ha pure un brutto raffreddore. Dopo settimane dall'uscita, i suoi libri sono usati per lo più come sostegni o fermaporta. I premi letterari, dove per un breve e memorabile momento lo scrittore si trova al centro di qualcosa - diverso dalla propria autocommiserazione - sono un ricordo lontano. Ha superato il termine di consegna del suo prossimo romanzo, riceve mail velatamente minacciose dal suo editore e l'anticipo, che prima sembrava così cospicuo e promettente, è stato spalmato su diversi anni riducendo il suo guadagno orario a quello di un mezzadro. Oltretutto, nessuno - nemmeno sua moglie, i suoi figli o la sua famiglia allargata - capisce quanto sia dura scrivere romanzi. E come se non bastasse, a volte è lui per primo a chiedersi perché mai dovrebbe farlo. A parte i pochi lettori di fiction seria rimasti, che imbiancano e si assottigliano come calotte polari, c'è ancora qualcuno a cui importa un accidente? Per tutta la durata del volo viene assalito da tutti questi dubbi e pensieri deprimenti. Ma quando scende, si rende conto di essere entrato in un buco spazio-temporale per ritrovarsi in una terra fertile e profumata dove tutti amano i libri.E non solo i libri tour court. No. Anche i suoi libri.Pare che tutti gli abitanti di quel luogo prodigioso stiano leggendo il suo romanzo. Il portiere dell'albergo, il padrone della casa dove va a posare per le fotografie di rito, la gente sulle panchine al parco.Ora, se questo scrittore fosse Ste-phen King o Tom Clancy, ci sarebbe più abituato e prenderebbe tutto con una sorta di signorile indifferenza, snobbandolo come facesse parte del suo destino privilegiato. Ma lo scrittore in questione non è Stephen King. Con mia felice sorpresa, sono io. Il Festival della letteratura a cui sono invitato si svolge da otto anni in Sardegna, nella splendida enclave di sinistra di Gavoi. E in questo lasso di tempo il suo fondatore (un mago della scrittura di nome Marcello Fois) e il suo staff, insieme alla cittadinanza locale, hanno fatto di questo festival una delle più alte celebrazioni civiche di alfabetizzazione che io abbia mai visto. Viene curato ogni minimo dettaglio, e la città gode non solo dell'afflusso di euro, ma - incredibilmente - anche di quell'arte di leggere i libri che sembra passata di moda.
«Americano?» mi chiede un commerciante di Gavoi, un affabile marcantonio che ha una bancarella di miele e torrone tipici. In America un uomo nella sua posizione probabilmente farebbe il pieno di football e birra e si addormenterebbe presto davanti alla tivù a tutto volume. «Che ne pensa di David Poster Wallace?» mi interroga.Forse non misono spiegato bene.Un venditore di miele, in una piccola cittadina della provincia sarda, che mi chiede cosa ne penso di David Poster Wallace. Sono entrato in un universo parallelo o è realmente accaduto? Ebbene sì. Evidentemente, come si dice, le vie del Signore sono misteriose. Mi hanno invitato al Festival di Gavoi dopo che era uscito un mio articolo (intitolato «Scrittori, quanta invidia!» sul Domenicale del Sole 24 Ore) nel quale redarguivo i lettori italiani per le loro abitudini retrograde, noti come sono per leggere meno di tutti gli altri europei. Chiamavo in causa l'editoria italiana, rea di non sostenere abbastanza i suoi autori, e la cultura italiana per la sua mancanza di un dibattito animato - a livello di recensioni e blogosfera - sulle qualità di ogni singolo libro. E a Gavoi sono stato bellamente e sistematicamente smentito, in tutto e per tutto. Io e mia moglie abbiamo gustato la meravigliosa cucina del posto, la squisita ospitalità dello staff organizzatore che, cito, «ti tratta come se fossi il loro migliore amico» e la sensazione che ogni cosa - dalla prima all'ultima - sia stata in un certo senso predisposta per valorizzare, dare importanza e credito a quell'arte perduta di scrivere e leggere i libri. Gli autori sono delle celebrità. Svolti l'angolo e affisso su un muro inmattoni c'è un bel ritratto a colori di uno scrittore che non avevi mai sentito nominare prima (o magari anche si). E guardando la gente per strada hai la netta sensazione che approvi il fatto che tu passi migliaia di ore della tua vita davanti a un foglio bianco, ostaggio della tua immaginazione e afflitto da ragioni comprese a malapena. Loro sì che hanno capito! Hanno sentito il tuo dolore! Hanno capito che è solo grazie ai tuoi eroici sforzi solitali se questo pianeta votato alla distruzione può salvarsi! E via discorrendo.Proprio così, e durante l'intero festival mi è sembrato davvero tutto troppo bello per essere vero. Eppure lo è stato, e quando è venuto il mio turno di parlare in pubblico, l'incantesimo non si è spezzato. Ora, in genere a una lettura in America uno scrittore del mio livello può aspettarsi da un massimo di duecento persone a un minimo di due, come quella volta a Oakland, in California, dove c'erano solo la sorella di una mia ex e un tipo che lei aveva conosciuto in un bar. A Gavoi? All'incontro ce ne saranno state un migliaio che applaudivano educate per il mio italiano arrugginito. E vogliamo parlare della qualità dell'intervista? Di solito, in America, chi ti intervista non ha nemmeno letto il tuo libro e ti fa domande insulse. A Gavoi, Invece, l'arguta e appassionata Alessandra Casella non solo si era letta il mio romanzo (con tanto di sottolineature e annotazioni), ma mi ha rivolto alcune delle domande più pregnanti e mordaci che mi siano mai state fatte. In genere l'autore legge e parla per una ventina di minuti, io sono rimasto sul palco per un'ora buona, seguita da qualcosa come 150 autografi.Ma niente dura per sempre.L'incantesimo si è rotto non appena è finito il festival e il mio volo Meridiana ha avuto due ore di ritardo, i bagagli ci hanno messo una vita ad arrivare, l'autobus che dovevo prendere per Perugia era partito da un pezzo e mi sono ritrovato all'istante in balia degli imprevedibili e seccanti disservizi del Belpaese. Ma soffermiamoci per unmomento sul lato positivo della cosa. Non dimentichiamo che sono uno scrittore ebreo-americano, figlio di un collezionista di libri rari nonché cartaio e legatore e che sono cresciuto respirando l'odore dei libri, oltre alle emozioni che sprigionano. E così c'è poco da stupirsi se per il breve e meraviglioso spazio di qualche giorno nella Barbagia sarda, ho pensato di essere morto e rinato in Paradiso.(Traduzione di Francesco Novajra)
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